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STORIE DI ORDINARIA FOLLIA Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 15 ottobre 1981
 
di Marco Ferreri, con Ben Gazzara, Ornella Muti, Susan Tyrrell, Tanya Lopert (Italia, 1981)
 
"Fare una cosa pericolosa con stile è fare dell'arte", dice all'inizio il protagonista di Storie di ordinaria Follia, e cioè, come si sa, Charles Bukovsky, autore che si racconta in prima persona, nei suoi romanzi come in questo film. Parrebbe un motto fatto apposta per il regista. Che ha almeno questo in comune con lo scrittore: il gusto, e anche l'arte. di andare ai limiti del proibito e del possibile. In quella zona, pericolosa appunto, dov'è facile cadere dalla provocazione al ridicolo; dall'assurdo, dal fantastico, dal poetico, quindi, al kitsch o al grand-guignol.

C'e una scena, in Storie di ordinaria Follia, che è tipica in questo senso: Bukovsky, in una delle sue innumerevoli esperienze sessuali, si ritrova con una grassona immensa. Per ritornare nel grembo della propria madre, come dice, non trova di meglio che provarci letteralmente. Cacciando la testa e spingendo, fra le gambe divaricate della poveretta allungata sul pavimento. Ben Gazzara, grandissimo attore che conosciamo per alcuni capolavori girati con Cassavetes, quando si ritrae ha le lacrime agli occhi. E l'arte di Ferreri consiste proprio in questo: non solo non sghignazziamo; ma stavamo per crederci.

Storie di ordinaria Follia ha pagine splendide, e non solo per la fotografia di Tonino delli Colli che ha tradotto in modo commovente il sacro e il profano dell'universo dello scrittore americano: una Los Angeles dai cieli grigi nella quale risaltano i rossi, i blu cobalto, i verdi squillanti degli interni. I bar, gli appartamenti, fino ai cessi contraddittoriamente allegri e tragici. Soprattutto la prima parte del film riesce a tradurre la presenza prepotente dell'io dello scrittore, che è sempre il vero e solo protagonista della letteratura di Bukovsky. L'ambiente è colto puntualmente, con i suoi personaggi disperati e indifferenti, con i suoni di un'America proletaria che Ferreri ha giustamente captato in diretta, con una realtà quasi documentarista che l'occhio del regista riesce quasi costantemente a trasformare in emblema, in mito o in fantastico.

Ma Storie di ordinaria follia è una raccolta di novelle quasi celebre, ormai, come quella di Hemingway. Ferreri ne ha scelte sei, e con lo scomparso sceneggiatore Sergio Amidei, le ha amalgamate, tentando di ottenere una continuità romanzata. A giudicare dalla seconda parte del film, l'operazione non è stata del tutto felice: la disperazione dei personaggi diventa di maniera, la musica di Philippe Sarde sottolinea gli aspetti quasi melodrammatici di una storia (quella dell'incontro fra lo scrittore ubriacone e la "più bella donna in città" la prostituta alla quale Ornella Muti presta il suo sguardo profondo) che Bukovsky aveva invece scritto in modo secco e spietato.

Come in CIAO MASCHIO anche qui Ferreri fa terminare il suo film su una spiaggia; ma in questo finale felliniano, con la ragazzina idealizzata a rappresentare non si sa bene quale via d'uscita per l'infelice protagonista, con la poesia ecologica e gli effetti in controluce, lo spirito di Bukovsky, francamente, si è perso per strada. Il guaio del film, al di là di certe pagine molto ispirate, è di non essere né totalmente Bukovsky, né tantomeno totalmente Ferreri. Del regista ritroviamo soprattutto una delle grandi qualità di CIAO MASCHIO, la tenerezza per i propri personaggi. Ferreri era un regista che filmava degli esempi di comportamento feroci, esemplari. Ma astratti avulsi dalla società nella quale vivevano. E quindi un po' dimostrativi. Nelle sue ultime opere è subentrata una grazia, un'emozione, tanto più folgorante in quanto nata dal contrasto con le provocazioni che lo hanno reso celebre. Qui sono le scene d'amore con la Muti, i primi piani dello sguardo sensibile di Gazzara, una carezza al vigile-bambíno, la visione sicuramente partecipe del mondo degli sradicati.

Detto questo, occorre riconoscere che Storie di ordinaria follia non sembra possedere i caratteri dei capolavori di Ferreri: la grandiosità dell'apologo, l'ansia anticipatoria, l'analisi sociologica che si tramuta in metafora poetica. La prima parte del film, la bambina nello straordinario teatro cinese, l'incontro con la ninfomane, descritto con una precisione e un'ispirazione perfetta, la discesa nell'inferno dei dormitori e delle prigioni di L.A. si sviluppa, sposandosi all'ambiente, con un'armonia perfetta, e non solo perché ci ridà il Bukovsky dai toni inimitabili. Ma la vicenda con Ornella Muti, la prostituta che si ficcava gli spilloni nelle guance per punire la propria bellezza, l'angelo "bruciatosi per aver voluto volare troppo vicino alla terra" si perde, nei sentimenti che poco hanno a che fare con le due personalità che governano il film. Eppure, era una storia assai vicina ad una certa filosofia di Ferreri. Quella che dice, più o meno, che a mali estremi non servono che rimedi altrettanto estremi."


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